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La « Pinta »,
Modello del cap. E. A. D'Albertis (Genova, Museo Civico Navale) (I).
In particolare: Rascòn e Quintero non si potevano dar pace della
tegola che era capitata loro sul capo e s'erano accordati per provocare
un'avaria la quale, una volta manifestatasi, avrebbe prodotto la sperata
conseguenza di sottrarre la loro caravella allo spaventevole destino di se-
guire la spedizione. Architettarono, perciò, di schiodare le assi costituenti
la spalla del timone, lasciandole semplicemente incastrate nel. relativo te-
laio, di maniera che, qualche ondata più vigorosa delle altre, le avrebbe
sconnesse facilmente. Non potendo tale avaria essere riparata in mare
aperto, ma con la nave tirata in secco, la caravella non avrebbe potuto con-
tinuare la navigazione e l'Ammiraglio l'avrebbe certamente abbandonata.
Ma, come vedremo fra non guari, avevano fatto malamente i loro
conti, perchè il criminoso progetto riuscì solo per metà!
Non essendo le due caravelle della servitù navale palosina sufficienti
per le esigenze della progettata spedizione oceanica, Colombo aveva già
in precedenza pensato di richiedere una terza nave, al cui noleggio si
doveva provvedere con i fondi raccolti nel modo dianzi accennato. Questa
terza nave fu tolta a noleggio da un marinaio-armatore biscaglino a nome
Juan de la Cosa, nativo di Santona (Vizcaya), e si chiamava La Gallega
(I) È strano come il competentissimo cap. D'Albertis sia incorso in un errore d'archeo-
logia navale, in quanto che l'attrezzatura della Pinta non fu mai a vele quadre!